Jobs Act

Quo-Vado-3

Come cercare lavoro negli Stati Uniti?
Ho scoperto che non c’è bisogno di cercarlo. E’ lui che trova te.
Appena apri la porta del cuore (o di Linkedin), iniziano a piovere telefonate e mail. Letteralmente. E io sono anche una tra i pochi ad avere un curriculum proprio povero negli USA, perché la mia esperienza di comunicazione è poco spendibile qui, data la mia conoscenza dell’inglese, sicuramente buona, ma non perfetta come si richiede a uno che dovrà scrivere sui social, sulle pagine web, sui materiali promozionali.
Ad ogni modo, ti cercano, eccome se ti cercano. E voi direte: poco qualificata, 44 anni, straniera, donna…ma ‘ndo vai? Eh, ma mica siamo in Italia… Qui è tutto un altro mondo, signore e signori.

Io ho iniziato da poco la mia ricerca di lavoro e l’ho fatto in punta di piedi, con umiltà, con la consapevolezza di avere poca dimestichezza con il Nuovo Mondo e ben sapendo che per una volta nella vita il lavoro non mi serve per pagare i conti, bensì per non sclerare a casa tutto il giorno facendo quello che non so fare, cioè la casalinga.
Ho chiesto consigli agli americani, un’amica mi ha aiutato a scrivere il mio curriculum, anzi, il mio resume, e già qui ho avuto la prima sorpresa: niente data di nascita. Anche durante i primi colloqui telefonici, nessuno ti chiede quanti anni hai. Certo, il trucco c’è. Se vedono che ti sei laureato prima della caduta del muro di Berlino, un’idea della tua età se la fanno comunque, ma mi rassicura essere giudicata soprattutto per le mie competenze e non per le rughe che ho in faccia.

Un’altra cosa bellissima che capita qui durante i colloqui di lavoro è l’entusiasmo che hanno i selezionatori. Tu sei italiano, abituato al Jobs Act, alle dita puntate perché non ti adatti, all’etichetta di bamboccione, arrivi qui e chi ti esamina inizia a dire che la tua storia professionale è incredibile. Proprio così. Amazing, impressive, awesome, great, so interesting. Tu lo guardi e pensi, oddio, ma starà leggendo proprio il mio curriculum? E lui va avanti, cita dei pezzi della tua storia quindi tu capisci che parla proprio di te, si entusiasma per i tuoi hobby, si esalta parlando della tua laurea e dei tuoi corsi, si complimenta per il tuo inglese. Sono tutti attori, ora lo so. Appena escono di casa si mettono su un palcoscenico e parte l’opera teatrale. E, vi dirò, non mi dispiace, alla fine. E’ bello che le persone si sforzino in ogni modo di metterti a tuo agio, di farti stare bene, trascinandoti nella loro migliore predisposizione d’animo. E quando sei lí, un po’ teso perché sei comunque sotto esame, è ancora più rassicurante vedere che chi ti dovrebbe giudicare, in realtà è molto più impegnato a darti sicurezza.

Tra l’altro, parliamo della tensione da colloquio. E’ assolutamente sbagliata e fuori luogo. Gli americani lo sanno bene: quando fai un colloquio di lavoro, un’interview, non è soltanto l’azienda a giudicare te, ma sei anche tu a giudicare loro! Pazzesco, vero? Invece è proprio cosí, l’impressione positiva deve essere reciproca, perché anche il candidato deve poter scegliere. Certo, questo è il mondo della flessibilità lavorativa, qui puoi davvero permetterti un po’ di snobismo, qui puoi rifiutare offerte di lavoro, licenziarti per stipendi migliori, fare macchinina rossa rossa dove vai per scegliere tra un portafoglio di succose opportunitá professionali. Per noi italiani è il Paese dei Balocchi, insomma. Io vengo da una generazione in cui il posto fisso è sacro, che perfino Checco Zalone mi direbbe “no, così è troppo”, quindi ancora non mi capacito di vivere in un posto in cui il lavoro si cambia più spesso di quanto si faccia il cambio dell’armadio. Qui ho conosciuto persone con lavori ben pagati, e anche belli, continuare ad aggiornare la propria pagina Linkedin e continuare a fare colloqui, solo per un’intrinseca tensione a migliorare, a migliorarsi, a creare sempre nuovi obiettivi. E non si tratta di gente giovane, credetemi, è proprio questo popolo qui che è strategicamente programmato per uccidere.

Ad ogni modo, tornando alla mia interview, dopo aver ricevuto una marea di complimenti sulla mia storia accademica, lavorativa e personale (cosa che se torno in Italia me la pagheranno tutti per avermi fatto sempre sentire una sfigata), ho dovuto fare un test per valutare la mia capacità di tradurre dall’inglese all’italiano. Test via Skype. Mi mandano un pdf, lo traduco in tempo reale, lo spedisco via mail e qualche giorno dopo mi richiamano per dirmi che la mia traduzione era “excellent” e che il manager “non vedeva l’ora di conoscermi”.
A tale fine, mi inviano una mail con alcuni consigli su come presentarmi al colloquio con il manager, e tra queste indicazioni leggo che è bene presentarsi puliti, curati e vestiti bene. Rido, sprezzante. In questo mi sento una spanna superiore, perché di noi italiani tutto si può dire, tranne che abbiamo bisogno di raccomandazioni su come presentarci a un colloquio di lavoro. Ma capisco, da come vedo vestita la gente al supermercato, che questa premura non è poi così tanto fuori luogo… Del resto, questo è il paese della pragmaticità e della concretezza, mica dell’eleganza e del buon gusto. Queste cose le lasciano a noi, loro si tengono la potenza, l’economia, la ricchezza, il petrolio, la stabilità.

Che poi, con 35 gradi fissi non è facile vestirsi eleganti, credetemi. Le uniche cose che si possono tollerare addosso sono canottiere, calzoncini, infradito o quei prendisole da nonna che lasciano passare aria dove non batte il sole. Ma, memore della mail che sembra scritta da Chiara Ferragni, mi sforzo di tirare fuori dall’armadio un pantalone nero, una camicia azzurrina, le scarpe coi tacchi e mi infilo nell’aria condizionata della mia Jeep. Nel tratto di strada a piedi che va dal parcheggio all’edificio di camicie ne sudo sette, ma i venti gradi della sala d’attesa mi seccano il sudore (e gli aloni sotto le ascelle) in pochi secondi. In poche parole, quando arriva l’assistente del manager, una donna, faccio la mia figura dignitosa, al punto che mi becco subito due complimenti, uno per le scarpe e uno per il profumo. Sospetto che anche questo faccia parte di un copione, ma incasso lo stesso con piacere.
Anche il resto del colloquio va molto bene, l’impressione (reciproca) è ottima e, per farla breve, mi selezionano. Avete capito bene. Buona la prima.
Poco qualificata, 44 anni, straniera, donna…ma ‘ndo vai? Beh, ecco. Vado a lavorare, ecco dove vado.

p.s. Ovviamente io ho un regolare permesso per lavorare negli Stati Uniti. Non sognatevi di venire qui con un ESTA (visto turistico) per poi mettervi a cercare lavoro, perché vi trovereste solo in un mare di guai! Lavorare illegalmente è un rischio assolutamente da non correre, perché le leggi da queste parti non perdonano.

17 risposte a "Jobs Act"

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  1. Ciao, grazie per questa ulteriore conferma che solo in Italia dopo i 30-35 non vali più niente! Sto cercando con determinazione e volontà un lavoro fuori dall’italia naturalmente,Nord Europa o Canada, è un pò lunga come ricerca, ma non demordo, nel frattempo continuo a studiare ed aggiungere competenze al mio resume, già ricco di per sè, anche se senza laurea…Ti auguro tanta buonissima fortuna, ora e sempre nella tua vita, sia professionale che personale!

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  2. Sto sognando per le mie figlie!! Una sta facendo il Liceo a Boston, l’altra è laureata in Comunicazione, farà un Master a Oxford in Brand Marketing, allora ci sono speranze! Brava! Che consigli puoi dargli?? Baci, Marzia 🥰

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    1. Ciao Marzia? Consigli? Non ne hanno bisogno, se sono a Boston e a Oxford hanno già le vele spiegate. Ragazze fortunate, le tue figlie…bravi voi ad averle lanciate lontano, impareranno tanto. In bocca al lupo a loro e a voi genitori generosi 😊❤️

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  3. Ciao tutto molto affascinante complimenti, sono pienamente d’accordo con la tua descrizione dell’america ma ci spieghi anche come hai ottenuto “un regolare permesso per lavorare in us”? Perchè sai molti hanno quello come ostacolo. ti ringrazio e spero di riuscire anche io di trasferirmi in US per far crescere le mie figlie lontano da quest’italia marcia!

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    1. Ciao Francesco. Hai ragione, trovare lavoro qui è facile se hai il visto, altrimenti la situazione è complicata e lo diventerà sempre di più a causa di sempre nuove restrizioni sui permessi di immigrazione. I modi per avere un visto sono diversi, io l’ho avuto grazie a mio marito, che ha risposto dall’Italia a un’offerta di lavoro di un’azienda americana. È stato selezionato e sponsorizzato. Uno sponsor è un’azienda che attesta di non aver trovato negli USA una professionalità di un certo tipo e che, quindi, accede ai curriculum di persone che vengono da fuori. È una procedura lunga, a noi ha richiesto più di un anno, quindi l’azienda deve essere particolarmente motivata a volerti assumere. Il visto che ci hanno fatto è H1B (H4 per gli altri membri della famiglia) e ha durata di 3 anni+3. Nel frattempo però ci ha fanno la green card, che ci è stata appena approvata. Insomma, Francesco, siamo stati molto fortunati, perché non è una procedura facile e se leggi i numeri di quanti H1B vengono assegnati in Italia ti spaventi. Siamo una rarità. Mi parli delle tue figlie, quindi mi sento di consigliarti, se sono in età di scuole superiori, di provare a farle studiare qui al college. Ci vogliono soldi, certo, ma avere un visto per studenti è relativamente semplice, e una volta finiti gli studi le tue ragazze possono fare un praticantato qui, pagato. Le altre strade per venire qui sono i trasferimenti all’interno dell’azienda in cui lavori, se ha sedi all’estero (visto L) oppure il visto investitori, che ti dà diritto ad aprire un’attività qui investendo un certo gruzzolo. Poi ci sono molti altri visti, ma questi sono certamente i più comuni. Come vedi, è dura. Mica si dice “hai trovato l’America” per caso. Ti auguro di trovare una strada per raggiungerci, perché anche se in salita, poi ti porterà a lunghe discese…In bocca al lupo!

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