Bittersweet symphony

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Il mio rapporto con la vita negli Stati Uniti è proprio così: dolce-amaro. Da quando sono arrivata qui, due anni ormai, oscillo tra l’amore e l’odio da un giorno all’altro. Oddio, forse odio è un po’ troppo…e forse anche amore è un po’ troppo. Ma di fatto i miei sentimenti verso la mia vita texana sono un po’ così, un contrasto di sapori, un su e giù che non mi stanca mai.

Ad esempio….

Amo la gentilezza della gente e ormai non ne posso fare a meno. Qui le persone ti sorridono e ti salutano, parlano con te al supermercato, ti chiedono come cucinerai quello che hai nel carrello, ti riempiono di complimenti, hanno sempre una parola buona. Quando torno in Italia e cerco di fare lo stesso, sorridendo o salutando gli sconosciuti, ricevo sguardi impauriti, a volte di disappunto, sicuramente pensano che di lì a breve cercherò di derubarli.
Per contro, odio quella sensazione un po’ di “finteria” che questa gentilezza si porta dietro. Insomma, è vero, che ti salutano e sono carini. E’ vero che ti danno il loro numero di telefono e ti dicono che presto ti inviteranno a cena. E’ vero che, una volta entrati un po’ in confidenza, ti giurano amicizia eterna e ti scrivono bigliettini di ringraziamento anche se gli regali un po’ di zucchero. Ma è anche vero che hanno la tendenza a sparire per mesi senza farsi trovare. E tu fai anche gli agguati vicino alla pattumiera, perché prima o poi dovranno buttare qualche bottiglia di plastica, ma non li vedi e non li incontri mai. Quando li ritrovi, un giorno per caso, sono di nuovo giuramenti di eterno amore, tu ci caschi di nuovo e il ciclo ricomincia, bottiglie di plastica comprese.

Amo le grandi opportunità che questo Paese regala a tutti, in modo democratico e incondizionato. Amo il fatto che non conta quanti anni hai, se sei bello o brutto, se hai esperienza o no, se sei titolato o meno, un lavoro lo trovi comunque. Amo la meritocrazia senza se e senza ma, senza clientele o favoritismi, perché l’impegno da queste parti viene sempre premiato, indipendentemente dal tuo cognome.
Per contro, odio il modo in cui avere un lavoro si trasformi in una corsa alla ricchezza, agli aumenti, ai premi. Non mi piace la competizione che si crea in questo sistema perfetto, non mi piace che non ci si ferma mai, non si è mai paghi, mai soddisfatti, perché c’è sempre qualcosa che può essere fatto per migliorarsi. O per migliorare lo stipendio.

Amo il rispetto per le regole. Amo il rigore americano, l’integrità e l’onestà che viene insegnata da bambini, perché fregare il prossimo significa fregare se stessi. Amo questa cecità di fronte alle regole: se una cosa non si può fare, non si fa, non ci si chiede nemmeno perché. Una società che funziona ha bisogno di questo, di regole certe, di sicurezze, ha bisogno che i buoni siano da una parte e i cattivi dall’altra. Una società che funziona si basa sulla fiducia nel prossimo, sulla prevedibilità delle loro azioni, sul fatto che tutti paghino le tasse, stiano in fila, parcheggino nelle linee, non fottano il sistema. Per contro, non capisco come si possa amare il sistema “società” in questo modo e fregarsene bellamente del sistema “pianeta Terra”, consumando energia e risorse come se la nostra generazione fosse l’ultima. Non capisco a cosa servano le luci accese in ogni stanza, fontane nelle piscine che zampillano 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, 15 gradi in casa quando fuori ce ne sono 40 e 27 quando fuori ce ne sono 2. Non capisco come mai non si investa sui trasporti pubblici, ma ci si ostini ad avere due o tre  macchine a famiglia con motori da formula uno.

Amo la bontá americana, la dolcezza che sembra stampata nel DNA di questa gente, l’apertura e l’accoglienza di questo popolo che fa della diversitá la sua carta vincente. Oggi piú che mai sono convinta che gli Stati Uniti non sarebbero quello che sono se non fossero una commistione di razze e di culture, di accenti e di pensieri. Muri e visti a parte, questo Paese conosce davvero la parola accoglienza, e lo vedi per la strada, negli uffici, al supermercato, nelle scuole. L’America, insomma, ha un cuore grande, in cui c’è posto per tutti. Peró mi chiedo come possa tutto questo coesistere in un sistema in cui la salute e la malattia sono affidate a entitá private, avide e incuranti. Un mondo in cui se perdi il lavoro, perdi anche la copertura sanitaria e diventi merce di un sistema succhiasangue. Un mondo in cui il messaggio ultimo sembra proprio essere “se sei forte, ce la fai, altrimenti…”. E rabbrividisco, perché nel mio Paese salcagnato ci sono principi (pochi) su cui non si transige, e uno di questi è che la salute è un diritto di tutti, soprattutto dei più deboli.

Amo tutto il nuovo che mi è esploso in faccia da quanto mi sono trasferita in Texas, compreso il mio nuovo lavoro, i miei nuovi colleghi, la mia nuova macchina. Amo le strade nuove che ho dovuto imparare, i nuovi vicini di casa, i nuovi amici. Amo questi tramonti texani, che incendiano il cielo ogni sera in modo diverso, amo guardare la Downtown dal ponte della superstrada, amo i giochi di luce del fiume al mattino, amo la luna che fa luce sul buio più buio che abbia mai visto. Amo tutte le stelle che riesco a vedere di notte dal Mount Bonnel, amo perfino il richiamo dei coyote che la sera risuona così vicino (troppo vicino).
Ma mi manca tanto il vecchio che ho lasciato, le amicizie lunghe, quelle vere. Mi mancano i miei genitori e mio fratello, mi manca l’odore della mia casa. Mi mancano i pranzi dai nonni e le cene bavaresi con Ale e la Cinzia. Mi mancano i miei vicini di casa, il mio vecchio lavoro, il mio cappuccio con la brioche prima di iniziare la giornata. Mi manca Milano, il profumo del suo autunno, con le foglie bagnate, le castagne e il risotto ai funghi. Mi manca l’odore del freddo, il cielo basso, il tragitto casa-lavoro con la borsa a tracolla. Mi manca incontrare Leo per strada con i suoi amici, che ho visto crescere, che mi chiamano Anto.

Insomma.
Io dal primo giorno ho cercato di chiamare “casa” questo posto nuovo che mi ha accolta con amore e generosità. Ho cercato nuove routine, ho cercato di essere simpatica con questo nuovo mondo. Volevo che mi entrasse nella pelle, che mi appartenesse. Ma ho imparato che cercare casa fuori da sè porta inevitabilmente a sentirsi sempre smarriti e insicuri. La casa forse non è un luogo fisico, non ha un tetto e una strada. Non ha nemmeno una porta. Quando lasci il tuo Paese capisci che non ti sentirai mai solo, se sarai stato abbastanza saggio da costruire la casa in un posto sicuro, dentro di te, che non si sgretoli al primo nuovo mazzo di chiavi. In caso contrario, sarà tutto un gran casino. Sarà uno svegliarsi un giorno felice e un giorno triste. Sarà una sinfonia dolceamara in cui vale tutto, e il contrario di tutto.
Ma la vita è bella anche così, credo. Perché io, le note di questa sinfonia, me le godo tutte, dalla prima all’ultima. Anche quelle più stonate…

12 risposte a "Bittersweet symphony"

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  1. Io in USA non mi ero trovata molto bene. Tutte le volte ci andavo con il mito in testa e gli occhiali rosa a forma di cuore, salvo poi cambiare bruscamente idea dopo qualche giorno lì. È vero che per lavorare sono fenomenali… fino al patologico. Noi ci sentivamo molto soli lì e non ci è piaciuto quello che abbiamo visto. Le persone contano solo sulla famiglia con cui convivono e non hanno quella rete sociale che c’è invece in Italia (gli amici, gli amici degli amici). Si riempiono la bocca di belle parole e organizzano eventi basati su interessi comuni (sport, lingue, religione) ma sono lo stesso forzati, organizzati, seguono sempre gli stessi canoni (l’invito, l’RSVP, le torte finte, i bigliettini, i sorrisini di circostanza) dei passatempi o delle convenzioni. Nelle Americhe urbanizzate (sia del nord che del sud) c’è poi questa farsa delle “tradizioni” che a me sembra un po’ imboccata. Le tradizioni non si sentono, te le inculcano a suon di jingle o cartelloni nei supermercati. A seconda del posto può essere “Siamo quelli del baseball il sabato” o “La cena del venerdì a Olive Garden” o “Per questa festa nazionale SI DEVE mangiare questi piatti perché sono quelli della tradizione”, “quando si guarda il calcio, si beve questa bevanda”, ma in realtà non c’è nessuna ragione storica dietro a queste tradizioni.

    Se hai Netflix, guardati lo show di Judah Friedlander “America is the greatest country in the United States”. Fa scompisciare! https://www.netflix.com/title/80208273

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    1. Sottoscrivo…
      Forse se rivolgi a Milano una parola a uno sconosciuto ti guarda con sospetto e paura, ma mi sembra che in USA ci sia un problema equivalente se non peggiore: la gente è artificiosa ma sopratutto impaurita dl uscire da schemi sociali che qualcuno ha deciso per loro…
      Non arrivo al punto di giudicarli schiavi di un sistema imposto, ma, per me questa è una cappa opprimente, mi piace conoscere come si vive negli altri paesi ma in USA oggi non ci vivrei
      E se a me piace bere coca-cola durante il calcio ?
      Mi guardano male e non mi invitano più ?
      Che fine ha fatto l’individualismo americano che tanto adoravo ?
      Tutti uguali nei rapporti sociali come tante formichine, lo credo che sia difficile avere amicizie vere

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      1. Anche io ho un po’ questa senzazione di conformismo, in effetti. E’ sicuramente un mondo di grandi contrasti e contraddizioni. Da una parte sembra che ognuno sia libero di comportarsi come crede, dall’altra ci sono tante regole non scritte alle quali tutti si piegano… Insomma, l’Eldorado non esiste…

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  2. Bel post!
    Una curiosità: ma se ti impegni sul lavoro puoi avere promozioni e aumenti di stipendio, ma se poi decidi di fermarti, cioè di non lavorare di più per guadagnare di più, che stai bene così ?
    Rischi di tornare indietro e/o sei visto male ?

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  3. Più conosco la “cultura americana” (o meglio, il modo di vivere di lì), più mi sembra davvero un grande esperimento sociale. Attraverso il cinema stanno costruendo una nazione, poiché ciò che si vede in TV aiuta a modellare il popolo, come pensa, come mangia, come si veste, come parla, come si comporta. Per anni ci hanno martellato che l’America è la patria della multiculturalità, salvo poi sollevare il velo (con Trump) e scoprirsi terribilmente razzisti. Oh la la! Chi lo avrebbe mai detto….

    Il nonno di mio marito viaggiò per lavoro dall’Argentina agli USA negli anni ’60 e tenne un diario di viaggio durante la sua permanenza lì. Racconta, inorridito, dalla segregazione razziale, un concetto anni luce dall’Argentina di allora e tuttora, per fortuna. Anche se ovviamente sono stati fatti grandi progressi sul piano dell’integrazione e del razzismo, la mia impressione è che l’America vuole far credere di essere tanto all’avanguardia su tutti i fronti, ma sul sociale mi sembra una grande farsa. Anche qui abbiamo leggi contro la discriminazione, ma sono comportamenti naturali delle persone e non accettati malgrado come spesso percepisco in USA.

    In USA la cosa che più mi metteva a disagio era il sentimento di ‘feeling like I don’t belong’ che avevo in tutti posti: non appartenenza per fattori economici, culturali e linguistici. e dire che eravamo in Florida dove avremmo dovuto trovare una cultura più vicina alla nostra per l’alto numero di latini.

    Non metto in dubbio la supremazia ed efficienza economica e lavorativa degli americani, ma guardando i documentari indipendenti (ma anche quelli stranoti di Michael Moore) ci si rende conto che per i soldi svenderebbero anche la loro madre e non si fanno problemi a cambiare le leggi per legalizzare le peggiori nefandezze e ipocrisie. A parte Trump nell’attualità, le porcherie le hanno sempre fatte, solo che le mascheravano meglio.

    In Italia non siamo perfetti, ma l’Europa ci ha reso più virtuosi. Bisogna cogliere il meglio di entrambi i mondi e chiudere un occhio sul resto… finché si può! 😉

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  4. Sul sociale però sono all’avanguardia nel #MeToo, per cui la prima str***a che vuole far soldi si inventa una molestia avvenuta 25 anni prima e l’accusato è colpevole a prescindere e ha la vita rovinata…
    Sarò esagerato,ma avrei più paura della tipetta vendicativa a scuola che dell’armadio che grida “Hut!” caricando il figliolo come un rinoceronte 😀
    A tal proposito una mia conoscenza che per un certo periodo è dovuta andare a lavorare in USA mi ha detto che i maschietti evitavano di salire da soli in ascensore con lei e non ne capiva la ragione…
    Poi ha saputo che si fa per il rischio di evitare accuse di molestie
    E’ una cosa che ho già sentito, ma su questo punto le testimonianze che mi arrivano non sono tutte concordi, c’è anche chi mi dice che è una esagerazione…

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  5. Quanto sono d’accordo! Mi sto trasferendo a Chicago per seguire mio marito (americano) e sento già estremamente vero tutto quello che hai scritto. Nei mesi passati qui in America in passato è tutto emerso chiaramente, e siamo già preoccupati di non riuscire a far diventare questo posto casa per me. Come diceva un commento qua sopra, “le persone contano solo sulla famiglia”, non esiste lo stesso concetto di rete sociale – anche perché la loro organizzazione urbana è davvero contraria all’umano, secondo me. La mia fatica più grande è proprio il fatto che tantissime cose che sono alla base dell’essere umano qui non esistono o sono assurde – pagare per guarire, indebitarsi fino alla morte per studiare, fregarsene dell’ambiente, fare un pranzo o una cena tutti intorno a un tavolo per bene… Mah, vedremo. Sono felice di aver scoperto il tuo blog!

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  6. Il tuo punto di vista soggettivo sul contesto texano / statunitense è molto coinvolgente. Nella fase conclusiva della tua riflessione, ho apprezzato (pur non avendo questo tipo di sensibilità) il tuo voler evidenziare una positività nell’altalenante sinfonia che caratterizza l’esistenza. Buon proseguimento di giornata! 🙂

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